Acqua alla gola: tre notizie sull’oro blu per riflettere sul presente e guardare al futuro

Il calendario ci segnala come ogni anno la ricorrenza della “Giornata dell’Acqua” ed ecco tre notizie calzanti riguardanti l’oro blu, a ricordarci che dobbiamo prenderci cura e salvaguardare questa preziosa risorsa: Cape Town sta attraversando una siccità irrimediabile e si avvicina inesorabilmente al “giorno zero” in cui non ci sarà più acqua per i suoi cittadini; uno scenario simile si prospetta a Bangalore e a Città del Messico; per quanto riguarda le “buone” notizie, la Grande Barriera di Bolle, un’invenzione brevettata poche settimane fa, potrebbe riscrivere il futuro degli oceani purtroppo quasi letteralmente seppelliti dai rifiuti.
Verso il Giorno Zero a Cape Town
Verso l’inizio dell’estate i 4 milioni di abitanti di Cape Town, capitale dello stato sudafricano e una delle maggiori metropoli del continente, potrebbero restare completamente senz’acqua nelle loro case e dover stare per ore in fila, sotto il controllo di guardie armate, per ricevere qualche litro di quello che è uno dei minimi requisiti per la sopravvivenza. Le cause dell’estrema siccità che sta attraversando la città sono fortemente dibattute, ma di sicuro possiamo dire che i cambiamenti climatici dovuti alle emissioni di CO2 e l’utilizzo massiccio di risorse idriche per colture e allevamenti intensivi sono da mettere sul piatto della bilancia. Il “giorno zero”, che è stato spostato da metà aprile a metà luglio, non sembra essere ormai più un avvertimento alla popolazione ma una realtà: l’accesso domestico all’acqua sarà tagliato a 4 milioni di abitanti, senza contare i molti abitanti delle township che da sempre non hanno accesso all’acqua potabile e che andrebbero a ingrossare i numeri del bilancio umano della siccità. Inoltre questo aspetto va a incidere ancora di più sulle antiche ingiustizie post-coloniali, per le quali i bianchi riescono ad avere in un qualche modo seppur nella tragedia, un trattamento di favore, mentre la maggior parte delle persone di colore che vivono nei quartieri periferici, potrebbero dover passare dalle 2 alle 6 ore al giorno in coda per ricevere una razione d’acqua, stando ai governatori locali.
Le piogge invernali, in cui giacevano le speranze degli abitanti della città, non sono praticamente avvenute da tre anni, eccetto precipitazioni di entità minima e non sufficiente a riempire le sei enormi dighe alle porte della città. Questo fenomeno non si registrava da 628 anni! Insieme agli eventi metereologici, si può dire che l’amministrazione pubblica ha avuto il suo ruolo nella crisi: a quanto pare, negli ultimi dieci anni, si è visto una vera e propria scalata allo sviluppo, dove la nascita di industrie con un grosso fabbisogno idrico, oltre che di quartieri ricchi il cui stile di vita (piscine, spa, giardini continuamente irrigati etc) fabbisogna di grosse quantità d’acqua, ha portato a enormi sprechi idrici, che sommati alla cronica mancanza di precipitazioni ha causato la crisi di quest’oggi.
I quartieri periferici e gli slum, da sempre abituati a drastiche chiusure dell’acqua di tanto in tanto, non hanno risentito di un grosso shock quanto invece la classe medio-alta, quando il 1 febbraio di quest’anno, come ultima contromisura alla crisi idrica, è stata decretato che gli stabili e le famiglie che utilizzeranno più di 350 litri al giorno saranno severamente multate.
Mentre voci dei quartieri popolari, come il reporter Sunè Paye, hanno commentato che i neri hanno sempre vissuto restrizioni idriche sia durante l’apartheid che adesso, altre voci hanno subitamente commentato come una vera e propria ingiustizia il fatto che l’utilizzo d’acqua per riempire piscine, lavare automobili o annaffiare i fiori sia diventato adesso illegale, e che queste misure restrittive possono nuocere al turismo. Se alcuni mesi fa il limite al giorno era stato fissato a 50 litri a persona, adesso è arrivato a 25, il consumo per una doccia media di 4 minuti.
La città nel frattempo ha preparato 200 stazioni di emergenza idrica presso supermercati, parcheggi e punti di incontro. I “pescecani”, dal canto loro, hanno preso il controllo di gran parte dell’acqua in bottiglia presente in città, rivendendola a prezzi gonfiati. Il rischio è che insieme al costo umano e al disagio della mancanza d’acqua aumenti la tensione sociale, da sempre tallone d’achille per uno stato che ha costruito il suo passato con l’apartheid, e aumenti il crimine e la malavita legati all’acqua. D’altro canto sappiamo però, che le capacità umane di resilienza e di solidarietà, specialmente durante i momenti di crisi sono incredibili.
Ovunque nel mondo,il tesoro più grande
Il destino di Cape Town, purtroppo, non sembra così lontano per molte città e località del mondo: la siccità, dovuta ai cambiamenti climatici, ha portato negli ultimi anni fame ed epidemie in tutte le zone del Medio Oriente, dall’Iran alla Somalia, ma il pericolo non sembra scongiurato ma anzi, solo iniziato.
La maggior parte dei 21 milioni di abitanti di Città del Messico ha accesso domestico all’acqua solo per alcune ore della giornata e uno su cinque, può averne accesso solo alcune ore a settimana. Aspettare ore in fila per la pipa (camion di distribuzione dell’acqua) è una realtà. Spesso la gente si accalca dalle primissime ore della mattina, con tutti i problemi del caso: gente che scambia i primi posti per grosse somme di denaro, gente che viene esclusa dalla distribuzione per via di scelte politiche o di vita ritenute sbagliate dal boss di turno e via dicendo.
Città del Messico è sempre stata la città degli eccessi idrici, predisposta alle alluvioni e inondazioni e allo stesso tempo a grandi siccità. Gli Atzechi la fondarono collegando con ponti e zattere delle isole su dei laghi sottostanti; all’epoca delle conquiste ispaniche i laghi furono prosciugati. Ad oggi, per via della siccità dovuta al riscaldamento globale, si scavano pozzi e perforazioni sempre più profonde alla ricerca di acqua, avanzando in profondità circa 0,4 metri all’anno, e questo sta inevitabilmente portando allo sprofondamento della città.
Dall’altra parte del globo, Jakarta, capitale dell’Indonesia, ha un destino simile: sta letteralmente sprofondando sotto il mare. E non è uno scenario di qualche film fantascentifico-postapocalittico; il problema è stato che, per ovviare alla forte siccità derivata dal riscaldamento globale e più precisamente dal rapido sviluppo industriale degli ultimissimi anni, molti cittadini hanno ricorso a pozzi clandestini che attingono dalle acque sotterranee sulle quali poggia la maggior parte del terreno su cui è stata costruita la città. Come un gigantesco cuscino sul quale poggia la città che si sgonfia, lo scavare pozzi sotterranei sta portando allo sprofondamento di oltre il 40% del territorio cittadino sotto del livello del mare. Esponendo la popolazione a tutti i rischi di alluvioni, tsunami e inondazioni del caso. Senza inoltre metter in conto le numerose specie marine che, a contatto con il massiccio numero di sostanze umane e soprattutto rifiuti, rischierebbero la sopravvivenza.
Bangalore, in India, sta anch’essa fronteggiando una terribile emergenza idrica: a causa dello sviluppo urbano disordinato e incontrollato, il 79% dei corpi idrici della città. La popolazione, che nel 2031 potrebbe arrivare a oltre 20 milioni e che ha un tasso di crescita annuo del 3,5%, ha portato alla costruzione, in maggior parte abusiva di pozzi sotterranei, che sono passati in 30 anni da 5000 a 450.000. L’amministrazione cittadina sta già contando i giorni che restando al Day Off, contando inoltre che una buona parte della popolazione non ha accesso all’acqua in ambito domestico e attingono alle acque del lago Bellandur, che purtroppo ha terribili livelli di inquinamento e di tossicità, a causa degli scarichi di gran parte della città che vengono riversati al suo interno, creando tra l’altro una schiuma dall’aspetto tanto divertente quanto in realtà tossica.
Sarà una bolla a salvarci
Dopo una tale sfilza di cattive notizie, vorrei, proprio nel Giorno Mondiale dedicato all’Acqua, parlare di un sistema che potrebbe cambiare le carte in gioco per la sopravvivenza di interi ecosistemi corallini e marini. Come è ben noto, un enorme problema per gli oceani è l‘inquinamento da plastiche, con tutti i problemi che possono derivare alla fauna marina: sacchetti di plastica che scambiati per meduse, vengono ingeriti e provocano la morte di pesci e tartarughe; oggetti minuti e lacci in plastica di confezioni di lattine che imprigionano il muso di tartarughe e mammiferi acquatici, mettendone a rischio la vita; senza contare inoltre l’innumerevole quantità di microparticelle plastiche ingerite da pesci di varia specie e dimensione.
Non molto tempo fa è stato brevettato il Seabin, una sorta di collettore di rifiuti collegato a filtri e a una meccanismo a pompa che attira l’acqua al suo interno. Invenzione pratica per i porti o le zone marine visibilmente molto inquinate, ma che presenta grossi problemi per la fauna acquatica che può rimanerne risucchiata dentro.
Ad ovviare questo problema ci ha pensato una equipe di ingegneri donne olandesi, di cui Francis Zoet è il CEO. era necessario creare una barriera per i rifiuti che però non fosse di impedimento al movimento di animali ed imbarcazioni. L’idea de La Grande Barriera di Bolle è tanto semplice quanto geniale: riprendendo una tecnologia già in uso per bloccare l’avanzata del petrolio in caso di perdite negli oleodotti, si utilizzano dei compressori che pompano aria in dei tubi che si trovano in diagonale rispetto alla direzione del flutto. Si forma una barriera di bolle che intrappola così particelle più o meno grandi di plastica e le porta in superficie, dove il getto continuo di bolle non rende possibile il loro allontanamento e dove, con ausilio umano o di macchine come il Seabin, possono essere prontamente rimosse.L’idea, che ha vinto il premio Plastic Free Rivers Makathon nel 2016 è stato seguito da un progetto pilota nell’ambiente fluviale olandese, di ottimi risultati.
Alcuni etologi sono dubbiosi sull’impatto di questo tipo di tecnologia sulla vita animale, soprattutto per le specie che nuotano in grossi branchi e per quelle che hanno moti migratori. Di sicuro però, si tratta di un sistema che per quanto può essere perfezionato, non mette a rischio de facto la vita di animali marini. Per il momento rimane un metodo per adesso solo sperimentato in ambito fluviale e non oceanico, ma il team sta facendo un crowdfunding per finanziare le proprie ricerche su questo sistema, per avere metodi sempre più efficienti nell’eliminare i rifiuti dalle acque senza coinvolgere o nuocere le forme di vita che le abitano. Certamente questo non può che essere un palliativo, una soluzione temporanea nel frattempo in cui tutti i paesi si impegneranno seriamente a lottare contro l’inquinamento e la plastica usa e getta; nel frattempo però non possiamo che lodare questa ricerca. Vale la pena vedere il bicchiere mezzo pieno, no?
Che fare? Non perdiamoci in un bicchier d’acqua
La scienza ci ricorda che il ciclo dell’acqua avviene continuamente, la teoria del “butterfly effect” può far sì che uno spillo caduto qui possa creare delle maree dall’altra parte del mondo. La globalizzazione, di sicuro, ci ricorda che siamo tutti collegati e qualsiasi cosa possa succedere nella parte più remota del mondo, prima o poi ne sentiremo il suo effetto, per quanto possiamo cercare di tenerla lontana da noi o di dimenticarne il problema.
Se in alcune parti del mondo ci si può permettere di sprecare acqua per scopi di infima importanza come lavare un’auto, innaffiare un prato o riempire una piscina, da altre parti si lotta per un posto in prima fila per poter ricevere una tanica d’acqua. Se da alcune parti del mondo ci si può permettere di inquinare le falde acquifere con residui tossici di fabbriche, distruggendo gli ecosistemi fluviali e marini, dall’altra scoppiano lotte e vere e proprie guerre per l’approvigionamento idrico. Dovunque però nel mondo, esiste una costante: ogni persona può scegliere che genere di cibo mangiare, come muoversi, come vestirsi e di conseguenza che tipo di mondo si vuole sostenere. Mangiare una bistecca, vestire abiti di cotone coltivato nel centro Asia, muoversi in auto e aereo, mangiare prodotti che fanno 10.000 km per arrivare sulla nostra tavola, sono tutti modi per affrettare quell’”effetto farfalla”; al contrario adottare una dieta vegana responsabile e a km 0, muoversi con mezzi pubblici, cercare di comprare solo vestiti di cotone bio le cui coltivazioni rispettino l’ambiente, sono invece tante “gocce” in un oceano. Delle meravigliose gocce che possono salvare questo pianeta e l’acqua che vi è a disposizione.
da Promiseland e foto: Joela LaghiALTRE NEWS, Attualità 22 marzo 2018 A+A-EMAILPRINT


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