Elogio commosso al grande Salento
Promisi a Capitan Macchi un pezzullo piemontese e invece eccomi in Puglia, con un testacoda imprevisto ma giustificabile: perché l’imprevedibilità mantiene giovani e perché il Sud è una calamita (senza accento finale) che attrae come un magnete non solo chi vi è nato: si dice, non a caso, che il meridione è l’infanzia del cosmo. Che Carlo mi perdoni, dunque, sia per l’improvvisata, sia per la consegna slittata di una settimana: in fondo è interista pure lui, tesserato all’attesa e alla sofferenza.

Avevo nostalgia soprattutto del Salento in estate, della calura ventilata, dei pomeriggi dilatati fino a sembrare eterni, intreccio di inerzia e luce divina. E del Negroamaro più indolente e salato (di cui sempre poco si parla e si assaggia), rosso che nelle versioni felici è un amalgama di calore, densità e salinità al servizio del sapore. E della Puccia leccese: la migliore, un piccolo capolavoro, è da anni la “Vegetariana” di Antonio Casto, nello splendido centro storico di Lecce, tra Piazza S.Oronzo, l’Anfiteatro Romano e la Villa Comunale (questo è il numero: poi non dite che i degustatori sono tipi egoisti 346.8361999).
Tutto ciò credo autorizzi quasi filologicamente un cambio di rotta improvviso. O quantomeno lo rende tollerabile. Mi sono così dedicato tre giorni salentini per una rapida ricognizione che è stata un po’ vacanza, un po’ lavoro, un po’ vita, ritrovando qualche bravo produttore e portando a casa una dozzina di buoni vini da mettere al sicuro.

Basso Salento
Arrivo da nord ma il mio viaggio inizia a sud del sud, “Finis terrae”: parto dalla porzione salentina più estrema, nell’agro di Nardò, capoluogo dimenticato del Basso Salento viticolo: lo Jonio si vede e si sente, c’è un sole sfacciato, calpesto capperi, tufi e terre ferrose e vedo vigne a intermittenza (colpa degli espianti degli ultimi trent’anni) incorniciate della macchia più brulla e da ulivi centenari, mastodontiche figure viventi, corpi scorticati che respirano con il vento, sculture in movimento che sono patrimonio dell’umanità.
Qui merita una chance Alessandro Bonsegna (www.vinibonsegna.it) neretino fiero e vignaiolo vero, che continua a produrre tanti vini di pancia e di calore (venduti a prezzi inconcepibilmente bassi), su cui svetta il meno accalorato e più agile della gamma: Nardò Rosso Danze della Contessa. La versione 2014 è raccomandabilissima: come tutti i Negroamaro del Basso Salento è più ematico che non terroso, e compensa la modesta complessità con una felice vena gastronomica, tutta affidata al sale della sua terra (con appena 5 euro lo si porta a casa).
Spendendo un po’ di più, altri tre Negroamaro del Basso Salento farebbero la gioia degli appassionati più sensibili al fascino del rosso mediterraneo: Alberelli 2011 di Paolo Benegiano (da vigne venerande, sfoggia una sapidità eccitante: 20 euro è la metà del suo valore “sensoriale”; www.lastoremasseria.it); Piromafo 2012 di Luigi Vallone, rosso ferroso se ce n’è uno, carnoso nel frutto e lineare nella disposizione tannica, proprio ideale a tavola (13 euro è un prezzo irreale; www.valleasso.it), infine Quarantale 2010 di Damiano Calò, che al netto di un saldo di primitivo e malvasia nera, “negroamareggia” parecchio, meritando l’acquisto anche in virtù di un dinamismo gustativo non così consueto nella storia dell’etichetta. (18 euro è un costo appetitoso per un classico dell’enologia pugliese; www.rosadelgolfo.com).

Alto Salento
Per fortuna da queste parti non ci sono autostrade e così la magia del Salento è distillata lungo la comoda Statale che da Maglie – la città del centenario Pastificio Benedetto Cavaliere (che per il gourmet esigente vale la deviazione) – porta a Lecce, verso nord (SS16), oppure a Tricase e Leuca, in direzione sud (SS275): è l’ombelico della regione, sexy da morirci.
Scelgo l’opzione settentrionale, per riprendere confidenza con l’Alto Salento viticolo, una dozzina di comuni raccolti in un ampio, dolcissimo altopiano che unisce la province di Brindisi e di Lecce, affidando il proprio mandato enologico soprattutto alla fama – e alla prolificità – del Copertino e del Salice Salentino, denominazioni che al meglio rappresentano la più alta espressione dell’uva negroamaro.
A conferma di come tutti i luoghi “natali” della vite, ovunque in Europa, siano anche culle di bellezza sconcertante, il percorso è un omaggio commosso all’estetica della sobrietà (senza sobrietà non c’è bellezza) e dell’italianità: il verde fitto e spettinato degli alberelli in piena vegetazione, il bianco ipnotico delle masserie ben conservate e il rosso “Coonowarra” delle Murge disegnano un Tricolore impeccabile, alla faccia di Salvini.
Ripenso a Albert Camus che scrisse di un Sud dove “tutti i mattini d’estate sembrano essere i primi del mondo e tutti i crepuscoli sembrano essere gli ultimi” e trovo che in Salento è vero più che mai, perché è piatto, senza ostacoli e con i due mari così ravvicinati da esaltare e rifrangere, come un prisma, albe, tramonti e anime. Da una terra così, non possono che nascere buoni vini (e buoni propositi).
E se il lettore più distratto non ha ancora colto la vena elogiativa – peraltro tutt’altro che sottesa – del mio rapido resoconto salentino, allora sarà necessario ribadire che questa gita nel sud delle Puglie mi ha lasciato la bocca buona. E in modo quasi sorprendente. Non che io fossi mai stato indifferente alle enormi potenzialità del comparto (come spesso accade fra tanti appassionati e operatori in cui si annida quello snobismo da parvenu che raramente convive con una genuina indipendenza di pensiero), ma certo non mi aspettavo un così diffuso ritorno a espressioni meno esasperate di tante etichette prese in rassegna, perfino fra quelle concepite con ambizioni di vertice. E così gli abbinamenti col cibo di questi vini sono oggi più spontanei che non in passato e le bottiglie si svuotano con minore difficoltà.
Sbirciando fra i miei appunti “altosalentini” e senza tenervi sulle spine, mi pare doveroso segnalare le prove maiuscole dei due fuoriclasse locali, Patriglione e Graticciaia, entrambi frutto di raccolte tardive ed entrambi ideati con la complicità del grande Severino Garafano (rispettivamente nel 1975 e nel 1986). Il Patriglione 2010 di Rita e Rosanna Taurino è insospettabilmente gioioso nella beva, nonostante la stazza autorevole (40 euro; www.taurinovini.it), così come Graticciaia 2011 di Francesco Vallone mimetizza con garbo “vellutato” la consueta, amaroneggiante ricchezza di estratti (40 euro; www.agricolevallone.it).
Quasi a voler immediatamente scongiurare l’eventuale obiezione: <> ecco due vignaioli outsider – entrambi di stanza a Carmiano – da consigliare a chi voglia smarcarsi dai percorsi salentini più consueti: Alessandro Carrozzo (www.cantinacarrozzo.com) con l’appetitoso Bonsignore 2013, che fra rusticità e fragranza, vale molto più dei 4 euro a cui si acquista in cantina; e Giovanni Petrelli (www.cantinapetrelli.com), interprete contemporaneo delle due più nobili denominazioni d’origine locali: il Copertino Tre Archi 2013 (semplice nel frutto ma tutt’altro che prevedibile e anzi ben contrastato da una lunga scia sapida; 6 euro) e il Salice Salentino Cento Pietre 2012, ampio ma preciso nei profumi di erbe e spezie, e di convincente scioltezza al palato (basteranno 7 euro, non di più).
Insomma, per concludere: quando il rosso salentino fa sue quelle risorse sapide e saline tipiche dei migliori vini del Mediterraneo, il calore e i tratti gentilmente surmaturi si rovesciano improvvisamente in golosità e risvegliano un gusto per il contrasto che dovrebbe essere di casa nel bagaglio interpretativo di ogni appassionato.
Oppure è solo un modo volutamente engagé per giustificare tre splendidi giorni trascorsi a zonzo in una terra meravigliosa, nel cuore dell’estate.
19/07/2016 Autore: Francesco Falcone Winesurf [redazione@winesurf.it]


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