29 ottobre 2004 – Pasquale Palma: parliamo del vino di Solopaca.
”In base all’ultimo disciplinare di produzione (2002) tre tipologie del Solopaca Doc, specificamente il Solopaca Doc bianco, il Solopaca Doc rosso ed il Solopaca Doc riserva, possono fregiarsi della menzione di “classico” purché ottenuti dalla vinificazione di uve prodotte nella zona di origine più antica del Solopaca. Ciò equivale al riconoscimento, per così dire, di un “quarto di nobiltà” che il Solopaca riceve, accrescendo in tal modo la nobiltà già posseduta nel suo patrimonio genetico e storico. Ma significa pure, e non è poco, che il Solopaca classico entra a fare parte del novero di quei pochi vini italiani che si fregiano della stessa qualifica, come, per citarne qualcuno, il Valpolicella, il Gambellara, il Soave e, sopra tutti, il Chianti. Il Solopaca, uno dei più prestigiosi vini della Campania, prende il nome dalla ridente cittadina del Sannio Beneventano, Solopaca per l’appunto, che si snoda per circa due chilometri lungo il pendio settentrionale del Taburno, tra colline ubertose particolarmente vocate alla viticoltura. L’etimologia stessa del nome – Solis pagus, “Paese del sole” – è come un segno premonitore del suo destino agricolo. Del resto non dicevano gli antichi: Nomen omen, “Il nome è un presagio”? Alle proprie spalle, sulla destra, sorge il paese di Vitulano, mentre sulla sinistra stanno Melizzano e Frasso Telesino. I festosi vigneti, insediati ad una quota media di 250 metri sul livello del mare, scendono gradatamente fin quasi a valle, dove scoprono le acque del Calore prossimo a confluire nel Volturno: il Calore irpino, beninteso, che va distinto dal Calore lucano. Di là dal fiume, sulle propaggini estreme del Matese, nel cuore della fertile Valle Telesina, si distendono le soleggiate colline di Castelvenere con quelle di Telese e San Salvatore Telesino, di Guardia Sanframondi e San Lorenzo Maggiore, di Cerreto Sannita e San Lorenzello, fino a quelle più lontane di Faicchio. Un panorama che colpisce per l’insolita bellezza, uno scenario naturale che abbraccia monti e valli, poggi e piani, agglomerati urbani ed isolate fattorie, dove la mano dell’uomo è presente quasi dappertutto; uno spettacolo straordinario ricco di colori diversi e di molteplici elementi bene armonizzati tra loro. È questa l’“Area del Solopaca”, la maggiore delle otto zone vitivinicole nelle quali è ripartita la provincia di Benevento, un’area che comprende, in tutto o in parte, i territori dei dodici comuni menzionati, tutti di spiccata vocazione vitivinicola, dove la coltivazione della vite e la tecnica della vinificazione hanno raggiunto livelli eccellenti.
Così come prescrive il disciplinare di produzione, tutti i vigneti, tanto quelli della riva sinistra quanto quelli della riva destra del calore, sono «ben esposti, ubicati in terreni di natura argilloso-calcarea e ben drenati». L’ecosistema clima-terreno-vite-uomo, cioè i quattro fattori che i francesi chiamano sinteticamente “terroir”, è qui perfetto, e questo induce a ritenere che la qualità e la tipicità del vino sono assicurate. Ma di quale vino? La domanda, in sé legittima, consente di affrontare la vicenda storica del Solopaca, che ha radici profonde e remote, senza che purtroppo mancano testimonianze precise. Tuttavia è certo che, ancor prima dei Greci e dei Romani, la vite fu coltivata su queste colline dagli Etruschi (lo proverebbe, se non altro, la presenza di due vitigni: il Trebbiano toscano e la malvasia toscana) oltre che, naturalmente, dai Sanniti stessi che utilizzarono vitigni autoctoni poi gradualmente sostituiti da altri di qualità selezionate. Le prime testimonianze letterarie sui pregi del Solopaca si trovano in Virgilio e in Orazio e, pertanto, risalgono alla fine del secolo a.C. La commercializzazione poi, già in età romana, del vino prodotto nella zona di Solopaca è attestata dalla scoperta di «un grosso scarico di vasi vinari, presumibilmente della prima età imperiale», fatta pochi anni fa dall’archeologo Wernel Johannowsky nella campagna tra Solopaca e Melizzano. Nel corso dei secoli il Solopaca attraversò le gravi crisi dell’agricoltura in genere e della vitivinicoltura in particolare (le disastrose invasioni barbariche nel Medioevo, l’assedio devastante dei parassiti – oidio, fillossera e peronospera – nell’Ottocento), ma poté ogni volta riprendersi e rifiorire ora per l’intervento delle istituzioni ecclesiastiche, ora per l’intervento delle istituzioni politiche. Ma sempre, diciamo “sempre”, si trattò di Solopaca bianco e di Solopaca rosso. Nient’altro. E questo, dobbiamo sottolinearlo, fino alla concessione della Doc ottenuta nel 1973.
Infatti, questi primo disciplinare di produzione prevedeva, unicamente, due tipologie: il vino Solopaca bianco ed il vino Solopaca rosso. Bisognerà attendere il secondo disciplinare, quello del 1992, che non solo apportò modificazioni di varia natura alla precedente normativa del ’73, ma accrebbe pure il numero dei vini “Solopaca Doc” di ben cinque nuovi prodotti, rosato, rosso superiore, Aglianico, Falanghina e Spumante brut. L’area del Solopaca fa parte della zona più intensivamente vitata della Campania. Vi operano due importati Cantine Sociali (quella di Solopaca e quella di Guardia Sanframondi) alle quali numerosi vinicoltori conferiscono le loro uve sapientemente selezionate. Ma vi operano pure, autonomamente, numerose aziende di media e piccola dimensione, le cui tecniche di coltivazione e di vinificazione hanno raggiunto livelli più che soddisfacenti. Tali cultori della vite e del vino, lavorando con avvedutezza e capacità in questo piccolo regno di Bacco, rendono il massimo onore al dio che, come sentenziò il poeta latino Marziale: «Haec iuga Nisae colles plus Baccus amavit», vale a dire: «Bacco amò queste colline (della Campania) più delle colline di Nisa», la città della Tracia dove, secondo la leggenda, il dio nacque.Concludiamo ricordando che il protettore di Solopaca è San Martino, venerato come patrono dei vendemmiatori, e che tutti gli anni, a Solopaca, nel mese di settembre, si svolge una spettacolare festa dell’Uva, con manifestazioni folcloristiche varie, ma soprattutto con carri allegorici che sono vere e proprie composizioni artistiche realizzate con migliaia e migliaia di acini d’uva. (Dei carri abbiamo già parlato, grazie all’apporto di Sandro Tacinelli che ha seguito l’evento segnalandocelo, ndr)


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