San Marzano, il re dei pomodori.
Fresco, pronto in tavola, inscatolato o imbottigliato: è unico.

A ben pensarci, è il pomodoro, non il McPanino, l’interprete più autentico della globalizzazione, di quando cioè la Terra è davvero diventata tonda e piccola.
Un prodotto così forte da rendere astratta e impossibile la stessa idea di poterne fare a meno in cucina, pensiamo solo alla pizza e alla pasta per restare in tema. Una presenza a volte ingombrante, tanto da dover subire di tanto in tanto alcune crociate promosse da chef innovatori, destinate però a riempire solo qualche pagina di giornale più che a cambiare le abitudini quotidiane.
Un emblema nazionale italiano, siamo i maggiori produttori al momento, già nell’800, tanto da spingere Pellegrino Artusi a riportare questo aneddoto nel suo famoso La scienza in cucina e l’arte del mangiare bene pubblicato nel 1891:
«C’era un prete in una città di Romagna che cacciava il naso per tutto e, introducendosi nelle famiglie, in ogni affare domestico voleva mettere lo zampino. Era, d’altra parte, un onest’uomo e poiché dal suo zelo scaturiva del bene più che del male, lo lasciavano fare; ma il popolo arguto lo aveva battezzato Don Pomodoro, per indicare che i pomodori entrano da per tutto; quindi una buona salsa di questo frutto sarà nella cucina un aiuto pregevole».
La sua forza di penetrazione è stata davvero notevole, ha dovuto superare forti pregiudizi se è vero che nel 1585 Castore Durante mostrava tutto il suo disprezzo:
«Il pomodoro mangiasi nel medesimo modo che le melanzane, con pepe, sale e olio, ma da poco e cattivo nutrimento».
Arrivato in Europa percorrendo le rotte aperte nell’Atlantico dopo la scoperta dell’America, è stato a lungo ritenuto dannoso e usato come pianta ornamentale non commestibile, addirittura c’era chi lo riteneva velenoso per via dell’acidità amarognola in eccesso, un sapore molto forte e determinato in secoli in cui prevaleva ancora il gusto dell’agrodolce.
E infatti la sua fortuna prende piede quando il pranzo, i pasti, vengono segnati cronologicamente dal progressivo passaggio dal salato al dolce secondo una rigida gerarchia di presentazione introdotta da Caterina de’ Medici a Parigi e da lì poi rilanciata in tutte le tavole, rimasta sostanzialmente invariata sino ai giorni nostri.
Già, ma quale il suo segreto? Perché questa diffusione omogenea, invasiva sino ad arrivare, ormai, anche nei dolci almeno nelle cucine dell’alta ristorazione?
La risposta è semplice, basta una sola parola: acidità.
Infatti il pomodoro, grazie a questa sua proprietà in eccesso, rende commestibile praticamente tutti quegli alimenti che ne sono privi formando combinazioni incredibili.
Basta un po’ di succo e il pane, anche senza condimento, assume un altro sapore.
C’è una precisa interazione fra il gusto e la appetibilità di un cibo e di una ricetta, l’acidità infatti produce la salivazione in bocca e rende più facile e immediato il primo approccio con quel che si mangia, pulisce il palato e fa immediatamente tornare la voglia di mangiare di nuovo. L’acidità consente al boccone di rimbalzare gradevolmente in bocca sino in fondo, come una pietra piatta riesce a saltellare sul mare senza andare subito a fondo, è il tapis roulant del gusto, riequilibra le diverse componenti della ricetta.
Nel vino è indice di possibilità di invecchiamento.
Bene, da dove si prendeva l’acidità in cucina prima dell’arrivo del pomodoro? Semplice, dagli agrumi e da alcuni frutti, pensiamo all’abbinamento fra le mele e la carne di maiale: ma limoni e arance in secoli di traffici difficili e pieni di rischi, privi di tecnologia del freddo, erano sicuramente difficili da reperire ovunque oltre che costosi.
Il pomodoro, invece, mostra una buona adattabilità ai climi caldi e grande prolificità: in una parola, è destinato a fornire il necessario supporto acido ai cibi e ai piatti.
Di pomodori ci sono moltissime varietà, la più famosa e conosciuta è senza dubbio il San Marzano, a cui abbiamo dedicato dalla scorsa estate l’Associazione dei Devoti per diffonderne la cultura.
Già, perché c’è un parallelismo fra questo ecotipo e, ad esempio, l’Aglianico: entrambi erano identificati rispettivamente con il pomodoro e con il vino nella società rurale e protoindustriale, salvo poi ad essere messi in crisi a partire dagli anni ’70 per ragioni diverse ma simili, con un minimo comune denominatore, la produttività.
Il San Marzano è delicato, richiede molte cure, sicché quando la grande industria è riuscita a selezionare altre varietà più resistenti e dunque anche più economiche, è stato progressivamente abbandonato sino a quando, nel 1996, è stata riconosciuta la dop (denominazione di origine protetta).
Grazie anche sforzi di Slow Food che ne ha fatto presidio, si è riaccesa l’attenzione della grande ristorazione e di quegli imprenditori più attenti, in grado di capire che la concorrenza cinese si può battere proprio come hanno fatto i produttori di vino con quella australiana e sudamericana: puntando su tipicità e qualità.
Secondo alcune testimonianze riportate dalla tradizione orale si dice che il primo seme di pomodoro sia giunto come dono del Regno del Perù al Regno di Napoli e che sarebbe stato piantato proprio nella zona che corrisponde al comune di San Marzano.
Da ciò quindi deriverebbe l’origine di questo famoso pomodoro, che nel tempo, con varie azioni di selezione, ha acquisito le caratteristiche dell’ecotipo attuale.
Secondo altre testimonianze però, solo nel 1902 si ha la prova certa documentata della sua presenza, tra Nocera, S. Marzano e Sarno.
Pare che questo pomodoro San Marzano sia derivato spontaneamente da un’ibridazione tra le varietà Fiaschella e Fiascone o da un ceppo locale denominato Lampadina.
La sua origine si presume localizzata nella contrada Fiano, tra Sarno e Nocera Inferiore, per poi diffondersi nella zona di San Marzano.
La coltivazione avviene in terreni pianeggianti, ricoperti di materiale vulcanico, profondi, soffici, con buona dotazione di sostanza organica ed una elevata quantità di fosforo e potassio.
La messa a dimora delle piantine avviene nella prima quindicina di aprile, ma può protrarsi fino alla prima decade di maggio.
La coltivazione deve essere quella di tipo verticale con fili opposti di sostegno, sono ammesse spollinatura e cimatura mentre la raccolta si effettua esclusivamente a mano.
La resa massima è di circa 80 tonnellate per ettaro e la resa in pelati si aggira sul 70%. Attualmente le varietà ammesse dal disciplinare per la produzione agricola sono la Selezione Cirio 3, il San Marzano 2 e gli ecotipi afferenti a tale tipologia tra cui la 20 SMEC 3, ottenuta dal lavoro di selezione nell’ambito di un progetto finanziato dalla Regione Campania, ed affidato nel periodo 1995-97 al Consorzio per la Ricerca Applicata in Agricoltura (CRAA).
La Cirio 3 rappresenta la cultivar di riferimento per la produzione del San Marzano coprendo di fatto quasi tutta la produzione agricola.
Il nome ha un preciso riferimento alla tradizione perché è nel 1875 che il torinese Francesco Cirio fondò la prima industria conserviera meridionale avviando una tradizione ancora oggi fortissima e diffusa.
Le caratteristiche intrinseche che hanno esaltato il San Marzano, favorendone così la conoscenza e il consumo sono il suo sapore tipicamente agrodolce, la forma allungata della bacca con depressioni longitudinali parallele, la scarsa presenza di semi e di fibre, la buccia di colore rosso vivo e di facile pelabilità.
Queste, insieme alle caratteristiche chimico-fisiche, lo rendono inconfondibile, sia fresco che trasformato. Attenzione: la denominazione di origine protetta designa esclusivamente il prodotto
“pelato” (alla UE è in istruttoria la proposta del Consorzio di tutela di ammettere nel disciplinare, oltre al “pelato intero” anche la tipologia “pelato a filetti”), proveniente dalla lavorazione dei frutti appartenenti all’ecotipo San Marzano.
Attualmente si coltiva nell’Agro Sarnese-nocerino nel Salernitano, nell’Acerrano-nolano e nell’area Pompeiana-stabiese in provincia di Napoli e nel Montorese in Irpinia per un totale di 41 comuni.
L’area di coltivazione si estende su oltre 16.000 ettari potenziali, anche se il prodotto destinato alla Dop, riguarda al momento poco più di 100 ettari impegnando 228 aziende agricole, con una produzione di fresco di oltre 61.000 quintali destinati alla trasformazione in pelato.
La grande freschezza e la riconoscibilità del San Marzano ne fanno una preda ambita da molti chef e buongustai: le sostanze minerali del terreno sabbioso vulcanico nero, il clima temperato grazie all’influsso del mare, il caldo, sono le condizioni di partenza di uno dei Propilei della cucina napoletana e quindi italiana.

INFO

Organismo di controllo
L’organismo di certificazione autorizzato è l’Is.Me.Cert. (Istituto Mediterraneo per la Certificazione dei prodotti e dei processi nel settore agroalimentare), Centro Direzionale Is.G/1 – 80143 Napoli tel 081/7879789 fax 081/6040176
www.ismecert.it

Consorzio di tutela
Il Consorzio per la Tutela del Pomodoro San Marzano dell’Agro Sarnese-Nocerino è stato riconosciuto dal MIPAF con DM 4 dicembre 2003 (pubblicato sulla G.U. 293 del 18.12.2003) in base all’art. 14 della legge 526/99 per la tutela, vigilanza e valorizzazione del prodotto.

La sede del Consorzio è in via Piave, n. 120 – Castel San Giorgio (Sa), tel. 081/5161819 Fax 081/5162610.
www.consorziosanmarzano.it

Casa del Nonno 13
Produzione artigianale
Mercato San Severino
Via Caracciolo, 13
Località Sant’Eustachio
Tel. 089.894399
www.casadelnonno13.com

(dal sito www.lucianopignataro.it)


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