COMPETERE, le notizie. Lavoro 1 – Innovazione 0. Perchè creare occupazione non è tutto
L’idea di Giacomo Bandini*
Il rapporto rilasciato dall’Osservatorio sul lavoro precario dell’Inps ha fatto esultare molti, soprattutto all’interno della coalizione governativa guidata dal premier Renzi. I dati dicono che nei primi 11 mesi del 2015:
• +510.292 lavoratori a tempo indeterminato rispetto al 2014
• +300.000 lavoratori dipendenti
• +9,7% assunzioni nel settore privato
Il Governo fa quindi bene ad esultare di fronte a questi risultati. Soprattutto se sono il frutto di una manovra come il Jobs Act che ha sicuramente favorito le assunzioni grazie ad un meccanismo di sgravi dei contributi sul lavoratore a favore delle imprese.
Ma quanto c’è da esultare? Dopo anni di immobilismo, qualsiasi risultato può apparire un ottimo risultato. Inoltre si pone un primo quesito: perché ridurre gli sgravi per le imprese se la manovra che li prevede ha generato maggiore occupazione?
Senza poi voler aprire discussioni di natura “giuslavorista” vi sono numerosi dubbi sulle metodologie di sviluppo del Jobs Act e sugli effetti a lungo termine. Un secondo quesito: qual è il rapporto fra crescita degli occupati, crescita industriale (del settore privato) e livello di innovazione del nostro comparto produttivo. In poche parole: queste nuove assunzioni rappresentano posti di lavoro utili alla crescita e all’innovazione delle nostre imprese?
Probabilmente è troppo presto per trarre delle conclusioni a lungo termine, ma se si guarda al 2015, vediamo che la crescita industriale è stata modesta, trainata dall’automotive, e lo scorso novembre la lenta ripresa della produzione si è anche fermata (1). Secondo l’Istat infatti l’indice della produzione industriale è sì salito del 2,3 per cento rispetto al suo minimo di maggio 2014, ma allo stesso tempo è talmente indietro rispetto ai livelli pre-crisi che ci vorranno anni prima di ritornare davvero a gioire. Dunque da un lato troviamo un’improvvisa impennata di assunzioni, dall’altro una risicata crescita del PIL e della produzione.
I fattori per spiegare la mancata crescita sono numerosi. Alcuni meramente di politica economica, altri strutturali, altri ancora socio-culturali. Uno di questi è sicuramente la carenza di innovazione che affligge maggior parte del tessuto industriale italiano. Mentre le imprese italiane generavano prodotti e servizi innovativi nel boom economico, oggi stentano a comprendere dove andrà il futuro e, soprattutto, stentano a comprenderlo i nostri Governi.
Ricerca e sviluppo disincentivati, nessuna chiara politica industriale, falsi miti generati dai successo di alcune start-up italiane, bassissima propensione alla digitalizzazione dei processi e della vendita hanno condannato una parte consistente delle nostre PMI alla sofferenza.
Nello stesso tempo, i giovani, formati in scuole e università obsolete e scollegate dalla realtà del mondo del lavoro e dai nuovi vettori del futuro, non riescono né a trovare spazio né a comprendere adeguatamente l’utilità di fare una scelta precisa in ambito formativo. Si crea così il fenomeno dell’over-education, indicatore tra le altre cose di una bassa domanda di lavoro qualificata espressa dal nostro sistema produttivo. Il che conferma anche una certa bassa propensione ad innovare.
Il risultato: uno spreco di capitale umano e di potenziale innovativo che collide con la rosea visione delle assunzioni di massa della nostra politica di maggioranza e con la tanto decantata propensione imprenditoriale italiana. Sicuramente il 2016 sarà un anno di ripresa e di positività, ma il vero segnale di riscossa sarebbe un cambiamento di policy che si allinei con il resto del Mondo e con il concetto di innovazione per la crescita.
*Direttore Generale di Competere
(1) http://www.lavoce.info/archives/39319/il-motore-dellindustria-che-batte-in-testa/
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