Accadde che un giorno don Carlo, che assisteva dalla finestra del vescovado allo scempio della città di Pompei, proprio non ne poteva più e invece di prendere carta e penna, non il telefono perché non si sa mai, approfittò del sermone domenicale, per dire peste e corna di questo e quello: gente che non voleva il decollo della città, ma solo tirare a campare. Disse che per evitare il peggio nelle ore notturne, a sue spese (pardon, dei contribuenti di quell’8 per mille che gli italiani versano come obolo alla chiesa per le opere pie, naturalmente) aveva mandato un segnale, lasciando accesi i lampioni che illuminano la piazza del santuario. Denunciava questo ed altri gravi fatti dei quali, invece, non s’erano fatti carico né i commissari straordinari del Comune, né l’amministratore dell’azienda per il turismo. Pompei, infatti, da qualche tempo mostrava, in modo sempre più preoccupante, i segni di degrado ambientale e civico, in avanzato e progressivo stato di peggioramento, circondata com’era da una truppa di micro delinquenza. Questi, provenendo dai paesi che la cingono d’assedio, complice il cemento delle case che straboccano da tutte le parti, creando vie di fuga che li rendevano imprendibili, facevano da spauracchio ai tanti visitatori degli scavi e del santuario con scippi e rapine, spesso conditi da violenza gratuita, a mò di intimidazione per zittire eventuali eroi. C’era, poi, il malessere giovanile, con la piaga della disoccupazione, la mancanza di opportunità di lavoro, i mendicanti italiani e stranieri, una città sporca e disadorna e un senso di totale abbandono. Tutto ciò, al novello don Carlo, sembrarono cose impossibili, lontane dal mondo reale, al nord le cose andavano diversamente, quindi la sua meraviglia, seguita da un naturale furore, non era ingiustificato. Ma se solo avesse avuto la pazienza di aspettare qualche altro giorno, per conoscere tutte le situazioni e ciò che le aveva generate, di certo non avrebbe fatto la figura del pollo. Quel giorno, in chiesa c’erano i soliti noti, ma anche qualche spione giornalista, che ne approfittò per sbattere le lamentele del presule, giunto da pochi mesi a reggere le sorti delle pecorelle vesuviane, sul giornale locale, suscitando le ire degli accusati. Mentre dal comune commissariato si preferì tacere, magari aspettando che la cosa scemasse un po’, dall’azienda del turismo l’amministratore Luigione non ebbe alcun tentennamento. Non si poteva sparlare di chi faceva di tutto per migliorare le cose, anche urlando e battendo i pugni. O forse il prete cercava di ingraziarsi le autorità costituite, per scalzare chi ne aveva già il consenso? Nel dubbio, la risposta, venne attraverso i prolifici corridoi di spioni, di cui ambo le parti erano pieni, e poi riportata sul solito giornale locale che titolò, come se fosse scoppiata la guerra civile: “Alle accuse reazionarie dei controrivoluzionari una sola risposta: la vedremo!”. E il dottore scaricò tutta la sua scienza e il suo sapere sui fatti dell’antica cittadina menando botte, verbali s’intende perché se avesse alzato le sue grosse mani avrebbe fatto male sul serio, verso chi aveva incautamente osato parlare a vanvera. Raccontò dei suoi appelli ai preposti, per un ordine diverso in paese, delle aree da mettere sotto tutela da parte delle forze dell’ordine, dell’indifendibilità degli scavi e dei commercianti, del servizio di videosorveglianza mai entrato in funzione nella zona archeologica e del caos nella viabilità, per la troppa vicinanza del casello autostradale. Disse dell’abbandono di ogni forma di vivere civile nel paese del santuario, dove la chiesa esisteva da centinaia di anni, ma dove da troppo tempo si pensava ad altro, della difficoltà di lavoro dei giovani e degli alberghi chiusi, di cui il più importante era di proprietà della Chiesa. Ribadì i suoi progetti, recepiti solo dal governatore della regione, e anche del ruolo non recitato da molti altri, o perché sordi o perché impotenti. Un terremoto tra chiesa e stato? Una via di mezzo. Eh, sì, perché in verità, in un paese commissariato dal governo (perché il consiglio comunale era stato sciolto per sospette infiltrazioni camorristiche), l’unico legittimamente in carica, responsabile dello scempio cultural-turistico, non poteva che essere il corpulento ma pacifico amministratore dell’azienda di soggiorno. Insomma, una querelle tra uomini che volevano entrambi la stessa cosa, la rinascita e il benessere di Pompei, come Peppone e don Camillo per Brescello. Perché non è vero che le storie di questo mondo sempre più piccolo si scrivono solo nella bassa padana; qui, nella piana pompeiana, di storie alla Guareschi, ce ne sono a iosa, basta aprire gli occhi e ascoltare in silenzio. Parlano tutti. (Nota di Gianpaolo Necco, inviata alle Arga)


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